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L’imperfezione vs il festival di Sanremo

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Chi ha seguito l’evento più chiacchierato in Italia, il più criticato, il più divisivo, ovvero il festival di Sanremo, fa un gran parlare di intonazione.

Si parla di bel canto, cantanti intonati e stonati, belle voci e così via, come se la perfezione in musica fosse l’obiettivo finale di un artista (perché i cantanti in gara sono chiamati artisti).

Intanto se le canzoni sono espressioni artistiche dovremmo valutarle secondo dei canoni estetici più ampi e più moderni. Senza scomodare Schonberg, Reich, Cage, anche la musica popolare si è evoluta, ampliando la sua modalità espressiva.

Fonte foto https://tg24.sky.it/

Invece valutiamo le canzoni come se fossimo ancora al tempo di Caruso o di Claudio Villa, come se il pubblico volesse soltanto chi canta bene. Si va alla ricerca dello sbaglio, dell’imperfezione, della stortura per poter dire che “no, non va bene così”. La voglia di perfezione è un desiderio inappagabile, crea un buco profondissimo in cui si viene risucchiati, giudicando e valutando ogni cosa, pur senza averne le competenze, solo seguendo un nostro gusto personale, credendolo universale. Se lo confrontiamo con quello di altre persone che “incontriamo” sui social network, vista la loro natura di ambienti autoreferenziali e fintamente aperti, secondo le teorie della filter bubble e dell’echo chamber, ci sembrerà che questo nostro gusto sia universale, mentre non ci rendiamo conto che i social favoriscono l’interazione tra persone con convinzioni simili. Crediamo che il gusto di 1000 persone sia lo spaccato di una grande porzione del pubblico.

Tornando alla voglia di “bellezza”, questa ci porta sempre più dritti verso il preconfezionato e, quindi, alla ripetizione di cose già sentite, alla standardizzazione di musica e voci. Saremo confortati da ciò che crediamo bello e ci accontenteremo di qualsiasi cosa si avvicini a questo presunto ideale di bellezza.

Nella musica possiamo prendere l’Autotune ad esempio per spiegare quanto sia forte in noi la voglia di normalizzare e standardizzare, pur senza addentrarci in questioni tecniche su chi lo usi e perché: i cantanti possono essere intonati grazie a questo strumento, perché la richiesta del mercato e del pubblico è che lo siano.

qui un articolo di Sky Tg24 che parla di Autotune e di chi lo ha usato al Festival di Sanremo 2025

D’altro canto, l’Autotune viene usato anche come effetto per modificare la voce (Mahmood ce ne ha dato dimostrazione in una delle serate), rappresentando una moda che sarà sicuramente passeggera, come tutte le mode. Ma come strumento di modificazione consente degli effetti fuori-standard che escono dagli ideali di bellezza di cui sopra, quindi non è lo strumento in sè ad essere “malevolo”, ma l’uso che se ne fa.

Non ci possiamo fare molto, la voglia di normalizzare e standardizzare è un desiderio umano innato che non sempre però ci porta dei vantaggi. Il seppure intonato Lucio Corsi è tutto fuorché l’incarnazione di uno standard, per quanto rimandi visibilmente a dei modelli di riferimento di un certo cantautorato rock anni Settanta.

Quando ci si rapporta ad eventi di massa come Sanremo, il discorso estetico e di espressione artistica vira verso l’anestetico, ovvero verso la mancanza di sensazioni (questo è il significato originale della parola greca). L’estetica è sensazione, partecipazione, valore; l‘anestetica è soltanto un apparente godimento, superficiale, non partecipato, non empatico, che passa nel giro di pochi giorni.

Eppure, la musica del Novecento ci ha educato ad amare la dissonanza e la disarmonia come valori espressivi, la stonatura intenzionale e l’imperizia come strumenti di empatia e di coinvolgimento.

Non sarebbero così amati, altrimenti, Bob Dylan, il punk, certe canzoni di David Bowie (in cui la dissonanza era a carico della linea di piano), e in Italia nemmeno Vasco Rossi o Giovanni “Lindo” Ferretti, solo per fare alcuni nomi tra i più conosciuti.

Rappresentazione di un accordo dissonante
(fonte https://www.soloclassica.it/ita/acustica/consonanze.html)

Come nelle linee che ho disegnato a mo’ di esempio, dobbiamo imparare ad accettare quelle storte.
Il nostro cervello ama la simmetria, soprattutto quella verticale, un piacere che si sviluppa già nei primi mesi di vita. Quindi c’è un perverso interesse per le linee storte, che vorremmo normalizzare facendole diventare dritte; il nostro cervello si chiede perché siano storte e creare così una reazione di disgusto ch eci porta istintivamente a rifiutarle. Se invece attendiamo, superiamo il giudizio immediato e lasciamo agire le linee storte, forse riusciremo ad accettarle. E questo potrebbe portarci un vantaggio.
Le linee dritte ci rassicurano perché sono molto “economiche” per il nostro cervello: le riconosce e le comprende in un attimo, senza nessun bisogno di guardarle per altro tempo. Le linee storte diventano invece una mappa da esplorare, in cui il cervello ha bisogno di tempo per comprendere, riconoscere, individuare. Nel primo caso lo schema è solito e già conosciuto, nel secondo lo schema è dubbio e la forma non conosciuta, ha bisogno di essere guardata e riguardata per essere memorizzata.
Non sono pericolose, solo faticose!

“In a landscape”, spartito grafico di John Cage

Quanto siamo disposti a concedere al nostro sistema nervoso, alla nostra intelligenza, di dedicare tempo ed energie per esplorare qualcosa di nuovo?

Il giudizio negativo è, in fondo, una scappatoia per non impegnarsi, un modo per uscire da una situazione cognitivamente faticosa, così tanto che alcune persone possono avere una vera e propria repulsione per certi tipi di espressione imperfetta. Ma questa reazione non rientra nella normalità, dato che viviamo in una realtà varia e in continuo mutamento: non riuscire a gestire la complessità dell’imperfezione è uno svantaggio che ci fa essere in dissonanza con l’armonia inconoscibile del reale.

In conclusione, sarebbe bello se a Sanremo si misurassero le canzoni e la musica su quanto ci coinvolgano in senso estetico, quante emozioni, immagini, sensazioni sono capaci di procurarci, invece di basarci su metodo di giudizio che è soltanto riflesso del nostro modo di essere e di pensare: l’individuale che prova ad affermarsi sul molteplice.

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