Julie Mehretu è una delle artiste più apprezzate degli ultimi anni, con quotazioni tra le più alte sul mercato contemporaneo. Fino al 6 gennaio 2025 le sue opere sono in mostra a Venezia, nei due piani inondati di luce di Palazzo Grassi. Si tratta della prima grande personale europea a lei dedicata e consta di una sessantina di opere, alcune delle quali, come già suggerito dal titolo “Julie Mehretu. Ensemble”, sono di artisti amici, con i quali collabora e condivide spazi e tempi creativi.
Mehretu è originaria dell’Etiopia, cresce negli Stati Uniti, studia alla Rhode Island School of Art e comincia la sua ricerca artistica con una sintesi complessa e originale di disegno e nuove rappresentazioni grafiche, come la data visualization e la cartografia, dando vita a grandi tele che, ad uno sguardo rapido, appaiono rifarsi ad alcune esperienze del cosiddetto Espressionismo Astratto americano. L’artista sembra mossa dallo spirito di Pollock e della sua pittura istintuale, ispirata dai misteriosi scarabocchi monumentali di Cy Twombly, ma anche dalla frenesia elegante dei disegni di Van Gogh, dal segno netto dei fumetti, dal mondo grafico di Kandinsky, dalle rappresentazioni architettoniche, dai diagrammi, dalle infografiche, dalle mappe; tutte queste, ed altre, ispirazioni si fondono in una sintesi personale e molto originale.
François Pinault – Presidente di Palazzo Grassi-Punta della Dogana , sottolinea, nella presentazione delle mostra come Mehretu riesca “a ritrascrivere il caos di un mondo in costante rivolgimento, grazie all’incrociarsi di influenze architettoniche, politiche, sociali e culturali. In un certo senso il suo lavoro riflette la sua storia personale“
Dal punto di vista tecnico, ogni sua opera inizia sulla tela con un misto di disegno architettonico, fotografie elaborate e distorte al computer, dati, simboli, segnali, che vanno a creare qualcosa che assomiglia ad una mappa o ad un paesaggio urbano, come se volesse ricomporre un ideale insieme semiotico di un luogo; questo primo strato, realizzato spesso a matita, rappresenta un pavimento per l’opera (Flatbed) su cui si poseranno tutti gli altri strati. Ogni strato viene coperto con della finitura trasparente che diventerà la base per la pittura o il disegno successivo: l’artista traccerà segni, linee, dipingerà macchie, simboli, porterà altri frammenti di immagini. L’artista è abile nel creare una impressionante profondità, che, in alcuni casi, viene accentuata dalle prospettive dei disegni architettonici o dalle linee tracciate sulla tela che suggeriscono dei movimenti.
“Mehretu descrive il processo creativo come una germinazione che parte dalla sovrapposizione degli strati che compongono il dipinto”1. Ogni carattere, ogni segno e simbolo disegnato sprofonda nell’opera; seguendo il principio della stratigrafia, diventano come fossili intrappolati nella sedimentazione geologica. Lo definisce anche come “un’attività estrattiva del linguaggio visivo”; del resto “la realizzazione di linee, tratti, punti, macchie, forme semplici è la base del linguaggio visivo”2. Lavorando sul linguaggio visivo genera quelli che chiama Neologismi Visivi.
Il risultato finale, almeno a prima vista, è quello di un’opera astratta; soltanto avvicinando lo sguardo alla tela si rivela la natura multistrato del dipinto ed emergono i tanti frammenti di cui è composta.
La Mehretu suggerisce che alcune sue opere siano come un vortice, un maelstrom, che risucchia tutto l’ insieme di segni sulla tela, portandolo verso il suo centro. Almeno tre dipinti esposto a Palazzo Grassi mostrano in modo evidente questa idea.
Un’altra particolarità del suo lavoro è il rapporto con la musica, soprattutto jazz, che riporta nella sua pittura, dove frequente è l’utilizzo di ripetizioni e di improvvisazione. Le sue opere e il suo processo creativo hanno ispirato il compositore di musica elettronica Floating Point che ha realizzato quello che è stato considerato uno dei più bei dischi di jazz contemporaneo degli ultimi decenni.
”Promises”, questo il nome del disco, è stato realizzato con la collaborazione del sassofonista Pharoah Sanders, esponente di spicco del jazz spirituale, collaboratore di Sun Ra, Miles Davis, John Coltrane e di sua figlia Ravi, e della London Symphonic Orchestra. La composizione, suddivisa in vari movimenti, si muove intorno ad un nucleo di poche note composte da Floating Points, rielaborate e dilatate, che creano la base per una trama sonora su cui si intrecciano le improvvisazioni sassofonistiche e vocali (le più sorprendenti!) di Sanders e il respiro sinfonico dell’orchestra. Tutta la composizione suggerisce un senso di caduta, come una goccia che, dopo aver tentennato nell’aria, volteggiando al di là di ogni legge fisica, cadesse dissolvendosi prima di toccare il terreno.
Un laboratorio per esplorare il processo di disegno di Julie Mehretu
Spinto dal mio interesse per l’artista etiope-americana, ho ideato un workshop per Palazzo Grassi che potesse dare la possibilità ai partecipanti di sperimentare, almeno in parte, il processo creativo dell’artista. I concetti chiave della pratica proposti erano il disegno generativo*, l’astrattismo (inteso come non figurazione), la stratificazione, la ricerca di gesti e segni propri. Il tutto accompagnato dall’ascolto del disco “Promises”, citato in precedenza, a guidare il processo creativo.
Dopo aver visionato tre opere in mostra, quelle più lontane nel tempo e basate in modo inequivocabile sul segno nero e sul disegnare, i partecipanti si sono seduti ad un grande tavolo posto in una zona riparata del grande piano terra del museo, di fianco all’atrio e affacciata sul Canal Grande. Lo spazio, ampio, luminoso, aperto alla curiosità dei visitatori, preludeva ad una pratica relazionale, condivisa, liberatoria del disegno, non certo ad una pratica intima, ragionata, progettata.
Le regole erano poche, sempre quelle del Disegno Brutto: tutto ciò che viene va bene; bisogna seguire la nostra mano; l’intenzione deve tramutarsi subito in azione, senza far intervenire la mente; non esistono sbagli perché l’errore è sempre un’opportunità.
Dopo una prima fase di introduzione, sia all’approccio Disegno Brutto che all’opera dell’artista, si è passati ad alcuni esercizi di riscaldamento, in cui lo scarabocchio si rivela pratica liberatoria, istintuale, alla portata di tutti. Abbiamo poi sperimentato la pratica del disegno generativo, usando segni ripetuti che, seppur in modo casuale, indicassero un centro, un’origine, un buco, nel foglio di carta, riproducendo quell’idea di vortice che la Mehretu ci mostra in alcune opere.
Non tutti i partecipanti vedevano nei segni prodotti un dinamismo o una tridimensionalità, per alcuni i segni stavano fermi come una felce secca schiacciata tra i fogli di un quaderno. D’altro canto, una bambina ha notato come il suo disegno riproducesse un buco nero astronomico, di tutti i vortici e gli abissi il più misterioso e il più terribile, capace di divorare tutto, anche se stesso.
Terminata la fase preparatoria, liberatici velocemente da alcuni condizionamenti e creando un ambiente confortevole dove poter sperimentare ed essere se stessi, senza essere giudicati, abbiamo iniziato a lavorare in piccoli gruppi, su fogli più grandi, circa 50×70 cm.
I primi disegni da fare erano dei disegni architettonici, semplici come una casetta, o delle mappe, usando matite B, quindi con tratto leggero e grigio. Dopo aver realizzato queste architetture o mappe, più o meno complesse, siamo andati a coprirle con segni astratti, ritmati, neri. Non tutti i partecipanti si sono trovati bene a cancellare ciò che avevano fatto; in un caso, una signora con un passato di insegnante d’arte e buone capacità di disegno, l’idea di coprire un “buon disegno” era inconcepibile e quindi provava a tracciare segni tutto intorno alla sua architettura (il frontale di una chiesa). In un caso come questo, l’individuo si trova costretto a lavorare perché tutto il resto del gruppo, che lei vede e che la vede, sta procedendo senza problemi con il compito dato, anzi trovando soddisfazione nella fase di copertura e cancellazione. Dopo un paio di interventi di incoraggiamento, anche la signora è riuscita, seppure a fatica a coprire il disegno iniziale, pur senza lasciarsi andare ad un fare davvero istintivo; infatti, non è soddisfatta, non capisce perché dover scarabocchiare su di un disegno, ma ci ha provato, superando le proprie resistenze.
A questo punto, i gruppi dovevano iniziare a creare una sorta di vortice, di abisso di maelstrom con i segni nervosi che dovevano coprire i disegni architettonici. Due dei cinque gruppi avevano trovato un buon accordo, sovrapponendosi e intrecciandosi, usando tutto lo spazio a disposizione; altri due hanno lavorato dividendo il foglio in quattro settori, con dei confini definiti che ogni tanto venivano superati soltanto per una ragione di coerenza estetica. Avevo chiesto che si provasse con i segni a creare un senso di profondità, usando tratti più sottili e più grossi; la richiesta richiedeva una certa abilità nel comandare lo strumento di disegno, per sapere con quanta pressione tracciare, con che inclinazione, con quale ritmo, che, mi sono accorto, era molto difficile da riprodurre. L’ultima fase del lavoro prevedeva l’uso di pennarelli e nastri adesivi colorati, che nella ripresa dell’opera della Mehretu avevano una funzione simile ad una segnaletica.
Dopo tre quarti d’ora di lavoro, i disegni finali erano compiuti. I partecipanti hanno commentato riportando un senso di liberazione e di divertimento; per un paio di gruppi il lavoro condiviso era divenuto collaborativo e, quindi, gratificante. Pur nel caos di opere scarabocchiate, i partecipanti hanno trovato dei valori estetici, una gradevolezza che andava al di là della soddisfazione di esserne gli artefici.
Riguardo al lavoro della Mehretu abbiamo almeno compreso quanto tempo impieghi per realizzare un’opera, e quanta fatica nel farla; per realizzarne alcune ha impiegato un anno, per quanto non continuativo!, di lavoro. L’altra cosa che si sperimenta è quanta abilità, o esperienza, sia necessaria per rendere alcuni effetti prospettici delle sue opere, così come quel senso di vortice che tutto muove e, forse, risucchia. La pratica del workshop rende consapevoli di quanta perizia e di quanto esercizio necessitino anche opere astratte che paiono frutto di istinto e caso.
Infatti, una delle mie idee è di usare il Disegno Brutto per avvicinare le persone ai processi creativi di alcuni artisti contemporanei: facendolo si può capire meglio un artista e le sue opere; si scopre che opere che paiono frutto del caso e della semplicità, sono in realtà complesse e richiedono una certa abilità; si comprende come gli artisti migliori siano quelli che sanno quando fermarsi, che sanno decidere quando un’opera è compiuta. La pratica di un disegno apparentemente semplice, svincolato dalla figurazione e basato sull’astrazione, sul ritmo, sulla casualità, è inclusiva e unuversale: tutti, adulti o bambini che siano, possono disegnare in questo modo; chi dice di non saper disegnare si troverà forse meglio di chi invece disegna già.
Credo che workshop e attività di questo tipo permettano di vivere in modo più completo una mostra: fruendo in modo attivo dell’arte, si aumenta il coinvolgimento delle persone, aiutandole ad entrare in relazione con le opere e la filosofia dell’artista. Molta arte contemporanea sembra invitare a questo tipo di dialogo con lo spettatore, provocandolo a misurarsi con l’essere artista, facendogli credere che quelle che vede sono opere che può ripetere, risultato di processi riproducibili e di abilità non così marcate. Molte persone, tutt’oggi, si sentono per così dire “truffate” dalla cosiddetta pittura astratta e non sopportano di non sapere cosa queste opere rappresentino. De Kooning e Twombly vengono ancora additati come truffatori da una parte di pubblico non abituato all’arte, ma anche da un’altra parte di pubblico colta, fedele alla figurazione e alla pittura, per così dire, accademica o rinascinamentale.
Le persone che hanno partecipato a questo workshop saranno, in futuro, dei critici più cauti nel giudicare opere che non comprenderanno subito.
Una signora, ringraziandomi, mi dice che adesso ha capito che le opere della Mehretu vanno guardate anche da vicino, cercando cosa si nasconde dietro il roveto di segni e linee che compare ad una prima vista frettolosa.
Il Disegno Brutto vince ancora sulle buone intenzioni, sulla buona educazione, sulla Bellezza vanitosa, rendendo la fatica, la lotta (più mentale che fisica), l’abbandono, la perdita (di tempo e di senso), la condivisione, il non giudizio, valori fondamentali per comprendere la realtà in cui viviamo.
Note
1, 2: I testi citati provengono dal catalogo della mostra “Julie Mehretu. Ensemble”, edito da Pinault Collection e Marsilio Arte.
- Per disegno generativo nel Disegno Brutto si intende un modo ripetitivo di tracciare di segni simili tra loro che crei l’impressione della crescita di una forma complessa.
Questo articolo è uscito in forma più lunga ed elaborata per la rivista culturale Doppiozero