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Il gioco del disegnare

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“L’unica regola del Puro Gioco è la legge della libertà”

Thomas Albert Sebeok

La pratica del disegnare viene spesso associata al gioco infantile: ci sembra normale che i bambini passino il loro tempo a disegnare e che si divertano a farlo. Perciò, per gli adulti il disegno è per lo più il ricordo di momenti spensierati che, come tante altre attività, una volta cresciuti non è più il caso di fare. Come giocare a nascondino, fare le pernacchie e le boccacce, saltare su ogni muretto, fare bolle di ogni tipo, ripetere parole ossessivamente, correre all’impazzata, rotolarsi nell’erba, guardare il sole ad occhi aperti e così via.

Solo in pochi decidono di farne una delle tante attività del tempo libero con l’obiettivo di svagarsi, rilassarsi, divertirsi, distraendosi dalla quotidianità.

Secondo l’etimologia, la parola divertimento indica una deviazione, anzi un prendere una direzione opposta a quella prevista.

In effetti, disegnare è fare altro rispetto a quello che dovremmo fare, dato che in pochi, troppo pochi, usano il disegno per profitto. Ci sono, certo, i casi di chi pensa disegnando e di chi prende appunti, di chi scarabocchia mentre telefona o partecipando ad una riunione, ma ormai anche gli artisti hanno quasi smesso di disegnare.

È indubbio che non si disegna molto da adulti; disegnano, invece, i bambini e gli anziani nelle case di riposo, oltre agli adolescenti sui loro diari, in sintesi tutti quei soggetti che non cedono all’affanno della vita, al tedio lavorativo, alla necessità dello stipendio e del guadagno: liberi da obblighi, gli esseri umani possono dedicarsi ad attività ludiche come disegnare.

Il gioco diventa però difficile da praticare, a volte addirittura spiacevole, se lo si considera uno strumento per l’espressione di sè, credendo che le linee che tracciamo facciano emergere, come volpi catturate da trappole fotografiche notturne, il nostro inconscio. Anche se razionalmente non crediamo nell’inconscio. 

Paul Klee, uno degli artisti che più ha disegnato nel secolo scorso, non riteneva un problema la faccenda dell’espressione di sè, sperimentando per tutta la vita, in modo divertito e profondo, come le linee si piegassero, stirassero, intrecciassero sul foglio; era un esploratore di terre incognite, un alchimista che si muoveva tra gli alambicchi, incuriosito da cosa ogni volta avrebbe potuto scorgere tra gli spiragli di creazione che si generavano sulla schiena consumata e macchiata d’inchiostro del suo tavolo preferito, illuminando il suo animo.

Paul Klee, “Scheinbar fest verankert”,1927 – via Lot Art

L’artista tedesco affermava “la decisa soggettività dell’artista-disegnatore” e aggiungeva che ogni disegnatore “rappresenta il suo mondo e la sua visione, le sue esperienze e l’interpretazione che dà di queste. Non è tenuto a preoccuparsi di niente se non della configurazione artisticamente valida del vissuto”; secondo Klee “chi disegna […] plasma la natura liberamente, in conformità alle sue esigenze espressive e senza patteggiare in alcun modo”, lontano dal realismo imposto da pittura e scultura. Il disegno è uno strumento che usa l’immaginazione e per poter immaginare bisogna essere capaci di stare con se stessi e indagare le profondità usando la mano e la matita come scandagli. Nonostante questa serietà della pratica, il divertimento è sempre presente perché “l’arte gioca con le cose supreme un gioco inconsapevole, e tuttavia le raggiunge”. 

È un divertirsi che eleva il praticante, perché ogni disegno, secondo Klee, è un esercizio spirituale.

Quando lo psicologo americano Paul H. Schiller studiò, analizzandoli, 200 disegni della scimpanzè Alpha, si arrese alla constatazione che nessun intento rappresentativo aveva mosso la mano del primate, facendo dei confronti con i disegni di bambini tra i dodici e i diciotto mesi. Negli scarabocchi animali non c’era nessuna volontà mimetica o imitativa, nessuna voglia di rappresentare il visibile, seppure fossero evidenti delle ricerche estetiche sulla forma e sulla simmetria.

Art by Congo, the Famous Painting Ape, to Go on Sale | Smart News|  Smithsonian Magazine
Congo, the Famous Painting Ape – via Smithsonian Magazine

I disegni dei primati Betsy e Congo, forse il più famoso tra gli scimpanzé artisti, furono esibiti e venduti tutti in una mostra organizzata dal biologo Julian Huxley, fratello del noto scrittore. Picasso acquistò un’opera e Mirò propose uno scambio con uno dei suoi dipinti; l’esibizione fu un successo e un dipinto fu acquistato per la ragguardevole cifra di 25.000 sterline. 

Il mondo intero si domandava se anche nell’arte fosse possibile un’evoluzione dalla scimmia all’uomo, quindi, di un miglioramento delle capacità artistiche dell’essere umano, che si fosse sviluppata dai primi tentativi del Paleolitico arrivando alla perfezione di Caravaggio e Vermeer, e poi al genio di Picasso e oltre: un luminoso progresso lineare, cognitivo e culturale, destinato a continuare nel futuro la sua magnifica traiettoria.

In fondo, cos’erano gli scimpanzé se non esseri umani non evoluti? 

Se questa ipotesi fosse stata confermata, si sarebbe potuto considerare lo scarabocchio come il tentativo maldestro di esprimersi fatto da una mente non ancora sviluppata, mentre il disegno accademico come il prodotto raffinato di un essere evoluto, capace di rappresentare il visibile e l’invisibile con incredibile perizia e bravura.

Una risposta netta a tale ipotesi fu data dall’antropologo inglese Desmond Morris, pittore dilettante e grande studioso dell’arte preistorica, che aveva seguito Congo durante la sua ascesa artistica: l’osservazione delle centinaia di dipinti prodotti in cattività o in laboratorio da vari primati (principalmente scimpanzè e orang-utan) gli fecero affermare che tali attività pseudo-artistiche “sono compiute per se stesse piuttosto che per raggiungere qualche fondamentale scopo biologico. Si tratta, per così dire, di ‘attività per l’attività”. Si interrogò quindi su queste ed altre esperienze auto-gratificanti che gli animali, noi compresi, compiamo ogni giorno e che non sembrano essere dirette ad un profitto immediato, giungendo alla conclusione che ci dovesse essere una base biologica di fondo che spingesse a questi comportamenti.

Tutti gli studiosi che hanno affrontato l’argomento si sono dovuti interrogare sul perché queste capacità “artistiche”, pur essendo presenti negli individui e fornendo loro piacere, non vengano utilizzate durante tutta la vita e restino per lo più inespresse, emergendo sporadicamente. 

Succede anche a molti di noi: abbiamo le capacità di disegnare, ma non lo facciamo, nonostante siamo consapevoli che farlo potrebbe darci soddisfazione. Sarà che ci appare così infantile, anti-eroico, intimo e asociale da offrirci solo un futile piacere; si aggiunga che ci spaventa, e molto, che la pratica possa rivelare la nostra incapacità: disegnare può essere molto imbarazzante. 

Sembra essere una pratica che non offre alcun vantaggio evolutivo, tanto che nessun altra specie animale, a parte quella umana, traccia intenzionalmente segni.

Come i koala si cibano soltanto di foglie di eucalipto, la cui tossicità ne rallenta la digestione e li costringe ad una vita sempre sospesa su di un’amaca di onde theta, in un dormiveglia perenne che li rende estremamente vulnerabili, così i disegnatori paiono nutrirsi di una pratica altamente sconsigliata dalla nostra genetica. E come i koala, restano immersi in uno stato ipnagogico in cui la mano muovendosi può creare mondi a partire da semplici linee.

Osservando la storia dell’umanità, si può tranquillamente affermare che il disegno sia sempre stato un’attività di nicchia: tutti, ovunque e in ogni epoca, hanno smesso di praticarlo da piccoli, lasciando che i segni fossero tracciati da chi si era specializzato nell’esecuzione di complesse tecniche da fare con carboncini, punteruoli, bastoncini, pennelli: artigiani, sciamani, guaritori, sacerdoti, saggi, maestri, nobili e colti scriba, e poi decoratori, miniaturisti e incisori, fino agli artisti acclamati e ai folli acclarati. 

Disegnare è sempre stata pratica indagatoria e rivelatoria, riservata ai pochi che sapessero maneggiarla. Intima, esoterica, misteriosa. Nel tracciare linee emergevano risposte, come se la punta dello strumento, stimolando la superficie dell’invisibile, potesse ottenere un responso.

Non è mai stata una pratica di massa, accessibile a chiunque, bensì riservata a chi avesse il tempo di esercitarsi, avendo già di che vivere. Si può dire che soltanto una élite della popolazione potesse occupare le ore in un’attività non tanto superflua, ma complessa e apparentemente improficua.

La proposta di una esperienza di disegno che sia accessibile a tutti deve tenere conto di queste premesse e saperne esaltare la potenza esploratrice, il cui profitto non sarà immediato, ma lento a venire, così da fissarsi in modo profondo e duraturo nella mente e nell’animo del disegnatore.

Attraverso il divertimento dello scarabocchiare possiamo conoscere noi stessi, diventando esploratori della nostra realtà individuale; i segni e le linee che tracciamo emergono da un lontano luogo inconscio e sgorgano da stigmate, che non sapevamo di avere, attraverso la penna sul foglio; sono linee che illuminano, come scie di comete, il difficile cammino nel fondo della notte della conoscenza. 

Disegnando ci si immerge, per gioco, in un altro mondo, affascinante, sfuggente, mai fisso, in continua mutazione, che altrimenti resterebbe invisibile e, dunque, inconoscibile.

Come nel fantasticare, disegnando ci si può scatenare in un “puro gioco” che è colmo di possibilità, in cui il divertimento non è soltanto nel muovere la mano e nel frinire della punta sul foglio, ma nell’esplorazione dei pensieri che stanno all’inizio e alla fine delle linee che tracciamo, nascosti dentro a minuscoli punti neri, sottesi dove queste s’incrociano, amplificati dagli spazi bianchi che definiscono le pance degli scarabocchi, rivelati d’improvviso da una macchia, un tremolio o un grumo d’inchiostro che sia.

Il disegno è una tessitura attraverso la quale ordiamo una rappresentazione sempre nuova della realtà che pensiamo, grazie alla quale, probabilmente, stimoliamo nuove connessioni del connettoma cerebrale a costituirsi, facendo incontrare neuroni che mai si erano collegati fino ad allora.

È con il gioco del disegno che possiamo permetterci di rendere la rete luminescente dei nostri pensieri sempre più intensa, lasciandoci andare all’apparentemente ridicola attività dello scarabocchio. E se i disegnatori si uniscono in gruppo, il gioco emerge evidente e, una volta stabilite le poche regole, ci si può addentrare nell’attività ludica, protetti da una bolla di immaginazione che permette alla nostra mente di andare in direzioni che solitamente non prende; il corpo avrà la sua gratificazione bio-meccanica nel muoversi, sintetizzando in linee e punti quei gesti emozionanti, mentre i pensieri fluiranno più veloci, produrranno riso ed eccitazione, scomponendo la sintassi del reale nei frammenti di un puzzle che si sparge casualmente davanti ai nostri occhi, senza che ci venga voglia di ricomporre l’immagine finale. 

Perché si disegna per disegnare.

(Nell’articolo sono citati contenuti tratti dal libro di Thomas Albert Sebeok, Il gioco del Fantasticare, Spirali Edizioni, 1984)


Sabato 16 e Domenica 17 settembre si terrà a Novara la quinta edizione del Festival Scarabocchi, organizzato da Doppiozero e dal Circolo dei Lettori, che avrà come tema il gioco e il giocare con figure e parole.
Per maggiori informazioni e il programma del festival: scarabocchifestival.it

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