Ci sono tante persone, la maggior parte di quelle che conosco, direi, che dicono di non saper disegnare.
Considerano quelli che lo sanno fare dei miracolati, dei talentuosi, dei virtuosi dell’immaginazione.
Non sanno che per la maggior parte di chi sa farlo è solo questione di esercizio, e poi di qualche briciola di talento.
Tutti possono disegnare, tutti possono imparare a farlo.
Anzi tutti dovrebbero farlo.
Non disegnare più è come vivere con un arto amputato: sentire il prurito e provare a grattarsi il braccio che non c’è più. Il riflesso non smetterà mai di richiamarci a quel periodo in cui, bambini, ci perdevamo nel mondo fantastico dei nostri segni, in cui creavamo simboli e sbrodolavamo la nostra immaginazione come se non ci fosse niente di più facile, senza nessuna stitichezza. I fogli si accumulavano ed erano pensieri che depositavamo nella miglior banca che possediamo: la mente.
Perché disegnare è ricordare.
E il disegno è pensiero.
Non c’è filo più diretto di quello che c’è tra una matita — o penna che sia (il nostro “sesto dito” per dirla alla Tullio Pericoli) — e la nostra mente. Le parole per formarsi hanno bisogno di un alfabeto di lettere, ché non sono altro che segni, e quindi di-segni. Si disegna per scrivere. Ogni scrittore disegna senza saperlo, anche quando usa i tasti di un computer.
Lo sapevano bene gli antichi Greci: per loro il termine grafeyn significava sia disegnare che scrivere, da cui la concezione moderna di Grafica come organizzazione di parole e immagini. E lo sanno bene in Cina e in Giappone, dove si usano termini uguali per definire la scrittura e il disegno. In estremo Oriente imparare a scrivere significa imparare l’agilità del polso, che sapiente guida la mano e quindi il pennello a tracciare parole che sono figure. È disegno.
Per farla breve, prima gli antichi Romani hanno distinto la scrittura dal disegno e poi, pian piano, almeno in Europa, la parola scritta ha preso il sopravvento e tutta la cultura adesso passa attraverso pagine scritte, mentre il disegno si è perso nei meandri oscuri delle penne degli artisti.
Francisco Goya, quando disegnava, aveva la potenza che gli derivava dalla sua immaginazione: così vediamo dispiegarsi le sue visioni come davvero fossero uscite direttamente dalla sua testa. Più potenti, forse, dei suoi quadri dipinti.
Disegnare è pensare, è un atto di espressione di sé, di ricerca interiore, di analisi, di sviluppo.
Non farlo è un po’ come non parlare, è un mutismo visuale che non può non risultare frustrante. E chissà, magari ci ammaliamo per colpa della nostra incapacità di disegnare, perché non ci permettiamo più il flusso indistinto di immagini che possiamo liberare attraverso la nostra mano.
Siamo immersi nella società delle immagini ma non sappiamo disegnare. Usiamo continuamente l’immaginazione di altre persone per capire le cose, per allestire le nostre presentazioni in Power Point, per i nostri calendari, per le nostre ricette, per le nostre t-shirt, insomma per addobbare e descrivere le nostre vite.
E non è che ci circondiamo di cose belle che non saremmo in grado di riprodurre, no! Desideriamo così tanto la decorazione, l’ornamento, le immagini e il loro potere evocativo, che siamo disposti ad usare anche le più brutte (gufi osceni ripetuti dovunque, gatti storti, scritte abbozzate, ecc.).
Non sappiamo più creare immagini che siano davvero nostre, che siano espressione della nostra personalità. Ci facciamo soverchiare da ciò che arriva da fuori e spingiamo sempre più in profondità ciò che abbiamo dentro: Pinocchio e Geppetto non riusciranno mai a uscire dal ventre della balena…
Per tutti questi motivi, un giorno, ho avuto l’idea di creare un corso di disegno per coloro che non sanno disegnare. Lo avrei chiamato: Corso di Disegno Brutto.
È nato un po’ per caso, all’interno del mio percorso personale di evoluzione/involuzione professionale.
Il caso però, lo sappiamo bene, non esiste.
All’ennesima crisi come illustratore (che è solo una parte del mio lavoro, ma è la parte più faticosa, più profonda e frustrante della professione, quella che mi mette di fronte ogni volta a me stesso), ho pensato che dopotutto l’illustrazione è un atto di vanità: si basa sull’apprezzamento degli altri, eppure quello che gli illustratori donano agli altri è spesso un piacere effimero.
Quanto dura nel tempo un’illustrazione?
È come un fiore, appassisce presto e poi si dissolve.
Ho pensato che le persone ammirano gli illustratori perché fanno cose che loro non sanno fare.
È come ammirare Reinhold Messner mentre attacca il K2. Però, con un poco di allenamento, le ferie nel periodo giusto e l’attrezzatura adatta posso farmi anch’io un trekking fino ai 3000 metri. E capire, solo per un attimo, con un millesimo della sua fatica, cosa si prova a scalare le montagne.
Così è per il disegno, non tutti scaleranno il K2, ma gli altri almeno un trekking d’alta quota potrebbero farlo. E provare l’ebbrezza delle vette azzurre, dello sfiorare le nuvole, del raggiungere una vetta. Dell’avvicinarsi all’azzurro terso del cielo. Elevarsi tre chilometri sopra al nostro vivere quotidiano, all’incombere del logorio moderno.
E lasciare che l’immaginazione tracci i propri segni.
È verso i dieci anni che iniziamo a capire che non saremo grandi artisti e qualche anno dopo che non riusciremo a disegnare fedelmente ciò che vediamo.
Così abbandoniamo. Smettiamo per sempre.
E ci togliamo la gioia di disegnare male: cioè di disegnare solo per il piacere di farlo, di muovere la mano, di far fluire i pensieri, di “perdere” tempo. Senza usare la gomma, senza pensare se sì è bravi o no, se ciò che stiamo facendo abbia un senso.
Non c’è giudizio in questo approccio al disegno, perché l’importante è l’agire, il disegnare e ciò che si prova a farlo.
Questo accade in un Corso di Disegno Brutto: tutto fluisce, non si corregge, non si ripensa, non si diventa BRAVI perché non c’è giudizio per ciò che si fa.
Disegnare gomito a gomito con persone che non si conoscono ci riapre ad un piacere perduto. Così anche solo disegnare in modo non intenzionale diventa un atto quasi meditativo.
Ci sono persone che hanno partecipato al corso che non smettono più di disegnare (non scherzo!) e vogliono aprire altre porte, scoprire nuovi pertugi e nuove possibilità per il loro percorso di non-disegnatori.
Ogni tanto qualcuno chiede: ma com’è fatto un Corso di Disegno Brutto?
In effetti è un corso un po’ strano…
È essenzialmente un percorso di rieducazione al disegno in cui si insegue il niente, creando attraverso segni, linee e forme il nostro nuovo linguaggio visivo, supporto formidabile per il pensiero e per la ricerca interiore.
Si tratta di un laboratorio esperienziale in cui si impara facendo e in cui la teoria è collegata alla pratica. Si passa continuamente da fase teorica a pratica.
La fase teorico-filosofica è molto importante nel corso: scardina certe convinzioni e instilla dubbi.
Ho messo insieme un sacco di cose tra quelle che so, in un modo molto personale (e forse folle), che è venuto da sé: il corso si è generato come spontaneamente e io lo sto seguendo.
È un percorso nel quale è molto importante il lato esperienziale, quindi il disegnare. Nella parte teorica, che frammenta le sessioni e alle volte si sovrappone al lavoro pratico, si cerca di smontare il concetto di disegno che tutti abbiamo e che verso gli 8-12 anni ci ha convinti a smettere di disegnare. Provo a instillare dei dubbi sulla percezione della realtà e sulla sua rappresentazione, cerco di far capire quali sono i mezzi per disegnare che possediamo già.
Per poter trovare una via nuova, prima bisogna smarrirsi.
Disegnare è scoprire.
«L’intima natura delle cose ama nascondersi», diceva Eraclito.
Una delle 10 leggi del Disegno Brutto è questa: «l’estrema naturalezza farà scaturire una bellezza essenziale». Le apparenze, il come-le-cose-sembrano, ci distoglie da ciò che le cose effettivamente sono, ci allontanano dalla loro Essenza.
I nomi delle cose ci allontanano spesso dalla loro essenza, le parole si allontanano a loro volta dal loro etimo, gli esseri umani dimenticano da dove sono venuti, l’acqua del mare dimentica la sorgente rutilante e i sassi da cui è saltata nel suo primo spruzzo alla luce del sole, e il sole stesso si è dimenticato il Big Bang e non pensa alla sua implosione (che non saremo qua a testimoniare).
Con il disegno ci si può addentrare in un mondo essenziale in cui descrivere le cose per come sono, e poi si può scoprire come quelle stesse cose possano sembrare anche altro e come il mondo in cui viviamo — la realtà a cui attribuiamo granitica fermezza — si nutra di rimandi infiniti, di infinite citazioni, di apparizioni, inganni, doppi sensi in cui la nostra percezione vacilla continuamente senza che ce ne possiamo rendere conto.
Cambiando la vocale ad un segno lo si trasforma in un sogno. O forse sono i sogni che si trasformano in segni, non so, Marzullo sicuramente ha una risposta, anzi una domanda per questo.
A noi che facciamo Disegno Brutto interessa solo fare, le risposte le lasciamo ad altri più sapienti.
A Ravenna, dove abito, ci sono state le premesse per fare un primo corso di prova, così a febbraio l’ho promosso su Facebook: i corsi a Ravenna sono diventati tre e da tutta Italia un sacco di persone hanno scritto o condiviso perché volevano partecipare oppure organizzare un Corso di Disegno Brutto.
Non solo, ma lo stanno chiedendo anche agenzie e studi di consulenza come occasione per stimolare la creatività e per cercare nuovi modi di visualizzare le idee e sostituire le slide di PowerPoint.
Alla fine, a me interessa che le persone tornino ad usare il disegno come strumento utile e come amico: non mi interessa che diventino bravi, anzi “bravo” nel mio corso non si dice.
E nemmeno mi interessa che disegnino “bene”: d’altronde, come potrei io insegnarlo?!
(Questo articolo è stato scritto per la rivista Frizzifrizzi, pubblicato il 19 maggio 2017).