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Quel che resta

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È il sabato di metà Ottobre in un autunno mite, stretto nella morsa della Pandemia. Mi muovo verso Punta della Dogana, dove incontrerò una ventina di persone arrivate da mezza Italia per fare il workshop di Disegno Brutto va al Museo.


Camminare per le calli di Venezia rimanda a epidemie lontane, ad un’idea di pallore autunnale buona per scrittori austriaci, c’è un’aria da ultimi giorni di libertà, di spensieratezza dietro le mascherine, una gran voglia di allungarsi sulle rive del Canal Grande per godersi il sole là dove la Giudecca fa confine e diga.
Venezia come ultimo riparo.
Mi muovo per le calli veneziane come gli stimoli elettrici dentro alle mie circonvoluzioni cerebrali, cammino veloce a creare sinapsi tra pensieri dispari e distanti. Siamo elettricità che cammina senza sapere di collegare i neuroni, nascosti dietro i portoni, arrampicati sulle credenze dei piani terra per ripararsi dall’invasione lenta di quando l’acqua si fa alta e il terreno scompare in uno scuro ondeggiare di riflessi.

Punta della Dogana, Venezia

La Fondazione Palazzo Grassi mi ha invitato a tenere un laboratorio aperto a tutti, dentro una delle loro sedi espositive. Abbiamo deciso di creare un’esperienza di visita “aumentata” usando il Disegno Brutto.
Sarò guida e agitatore nel percorso di visita che faremo dentro l’esposizione di Punta della Dogana dal non-titolo UNTITLED 2020 – TRE SGUARDI SULL’ARTE DI OGGI, che raccoglie una moltitudine di opere, come una Wunderkammer di reperti, frammenti, pezzi, dal grande potere evocativo ed ispirante.
Abbiamo chiamato il laboratorio QUEL CHE RESTA. È incentrato sull’idea che nonsi abbiano strumenti per memorizzare e raccogliere tutti gli stimoli che l’incontro con l’arte, in qualsiasi spazio espositivo o museo avvenga, produce dentro di noi. È più quel che si perde di quel che si trattiene.

Mostra Untitled 2020

Arrivato a Punta della Dogana, scherzo con i partecipanti per introdurre il laboratorio, dicendo che la cosa che ci ricordiamo meglio delle visite ai grandi musei è il mal di piedi. Il museo affatica, tanto che spesso siamo frastornati per la fatica percettiva e fisica a districarsi nei percorsi espositivi, dove le tante opere producono molteplici stimoli., probabilmente troppi La sindrome di Stendhal è esperienza rarissima, il rapimento estatico viene sostituito da un vorace appetito enciclopedico appagato dall’ascoltare le audioguide e dallo scattare foto a più non posso, sperando, in un domani ipotetico, di poter ricomporre il tutto e di assimilarlo.
È buffo, spesso ci ricordiamo i bagni dei musei, non solo quando sono particolarmente strani o inusabili..

Cosa resta di ogni museo?

Il laboratorio è partito da questa considerazione, con l’obiettivo di filtrare e raccogliere appunto “quel che resta” di una visita ad un museo.

I resti sono la nostra unica risorsa, quando il troppo ci assale. Fare a pezzi il gigante è il nostro unico modo per combatterlo e capirlo. Ricomporre e ricombinare sono l’atto di trasformazione che ci rende artisti e che rende ogni opera d’arte soggettiva. Oggettive vogliono essere soltanto le opere dei dittatori. Che vogliono imporsi invece che proporsi.
La visita ad un museo è fatta di diverse componenti che finiscono con il costruire l’esperienza, creando una sintesi finale fatta di memorie razionali e percettive, nelle quali il pensiero visivo spesso è predominante.Non abbiamo il controllo di questa sintesi e il conglomerato che produciamo è apparentemente informe, disarmonico, forse incomprensibile a prima vista: è come lava che sgorgando dalla bocca del vulcano, porta a valle con sé frammenti e detriti, finché non si raffredda e solidifica. Se qualcosa di prezioso si trova sulla strada della colata lavica, quella materia lucente e rara sarà nel congolomerato, a volte visibile, a volte nascosta nel suo cuore come un nocciolo di pesca.Con il mio laboratorio provo a guidare la lava e a far dare ad ogni partecipante una forma al suo conglomerato prima che la materia si raffreddi, in cui la parte preziosa emerga e sia significativa, non più nascosta. Ché l’esperienza possa galleggiare nelle superfici della memoria e non nei suoi recessi più nascosti.


Il laboratorio si sviluppava in 90 minuti. La prima parte era dedicata all’introduzione, con la spiegazione di modalità e obiettivi. Svolgo questa parte nel modo meno didattico possibile, cercando di aprire squarci laterali, creare un’atmosfera, facendo collegamenti apparentemente non pertinenti o almeno atipici. Voglia che il partecipante perda la strada, in modo da farli abbandonare, almeno momentaneamente, le proprie convinzioni. Non voglio io sostituirmi a queste, non li salverò se si perderanno, voglio essere sicuri che cambino la via dei loro cammini, almeno nel breve tempo del laboratorio. La mia voce crea dubbi, Provo a dimostrare con la parola come si possa trasformare ogni esperienza attraverso l’uso dell’immaginazione. Ciò che io mostro con le parole inizialmente i partecipanti dovranno sperimentarlo con il disegno.Per creare un primo smarrimento, scrivo dei testi specifici per ogni evento che poi leggo ai partecipanti. Questo è il testo scritto per Quel Che Resta.

INDICAZIONI
Avete una stanza dove le luci possono rimbalzare
Gli echi rimbombare, i colori diluirsi,
È in quella stanza in cui avvengono le trasformazioni
E nessuno può entrarci, voi ne avete la chiave, Voi il diritto di uscita e di entrata.
È la vostra mente e Voi ne siete le mura, ma anche le finestre.
Afferrate tutto ciò che potete, ciò che aleggia, ciò che vi ispira, ciò che traspira
Ciò che passa e galleggia,
Afferrate il pulviscolo che rimane dopo i discorsi sensatiE la polvere che si alza dai musei in cui siete stati,
Quelli di cui non vi ricordate abbastanza,
Quelli in cui vorreste tornare. 
Conta solo quel che resta.
Conta solo quel che resta.
Lo sapevano i cercatori d’oro con le gambe intirizzite
Dall’acqua dei ruscelli canadesi,
È prezioso ciò che rimane sul setaccio
E la sua trasformazione vi farà ricchi,
Siate una fucina accesa a pieno regime.
Siate la sospensione in una provetta,
Una fabbrica senza scioperi,
L’altoforno che mai si raffredda.
Dobbiamo sempre trasformare ciò che si trova,
È così che funziona la fotosintesi, così la digestione, così la vita.
Quando l’acqua evapora ci sembra sparire, disintegrarsi e dissolversi,
Invece si sublima ed è solo alleggerendosi e disgregandosi che può salire e ambire al cielo.
Se volete vedere le cose con prospettive diverse,
dovete cambiare lo stato della materia di cui siete fatti e quello delle cose di cui vi nutrite.
Dovete essere fabbrica e trasformazione.
Questo è il vostro lavoro.

Da lì in poi abbiamo iniziato a disegnare, liberamente, in modo da sbloccarci e non preoccuparci del risultato.Una volta spiegato che l’obiettivo è “inseguire il niente”, creato un campo percettivo adatto e messe le persone in lieve, e piacevole, disagio, è sempre sorprendentemente facile lasciarsi andare attraverso il disegno.
Il nostro grande tavolo era all’interno di una sala dell’esposizione chiamata Studio e allestita in modo da riprodurre lo studio dell’artista (e tra i curatori di questa mostra, insieme a Caroline Bourgeois e Muna El Fituri) Thomas Houseago. Lo spazio è un cubo immaginato dall’architetto Tadao Ando, situato proprio nel cuore dello spazio espositivo di Punta della Dogana.Senza saperlo eravamo artisti nello studio dell’artista, chiusi dentro questo cubo a pensare come uno degli artisti esposti. Trasformavamo trasformandoci. Eravamo Giona nella pancia della balena: 3 mezzore simboleggiavano i 3 giorni, troppo poco per una rinascita, ma sicuramente sufficienti per una immersione nei riflessi ondulanti dell’acqua veneziana e per insinuare dei piccoli semi che generassero nuove idee.I partecipanti erano inconsapevolmente parte attiva dello spazio psichico creato dall’esposizione: tutti insieme, me compreso, eravamo l’artista che con il suo sguardo avrebbe ritrasformato le opere esposte in qualcosa di diverso.

Opere esposte

Abbiamo così iniziato a dialogare con la prima pittura, evocativa e imponente, che stava appesa sul muro ad un lato del tavolo ovvero l’opera “Untitled” di Thomas Houesago. Come si vede dalla foto una tela di oltre due metri che rappresenta un essere informe, nero, sul quale si sovrappone il disegno di una figura umana; sembra un involucro di tensioni e paure che sovrasta ogni essere umano. Per quel che mi riguarda, sono colpito poi dall’asincronia di alcune linee curve che escono dalla spalla sinistra della creatura informe. Mi sembra il movimento di un’ala mancata, l’aborto di una potenzialità angelica resa vana dalla scura materia aggrappata alla tela (è un coacervo materico di grafite, pastello e vernice a olio).La creatura nera ci introduce alla mostra, provando a riprodurla proviamo le sensazioni dell’artista, cerchiamo di indovinare la meccanica dei suoi gesti, le sensazioni che ha provato mentre la creatura informe si impadroniva dello spazio bianco. Un metodo apparentemente casuale e generativo (come piace a me quando sono nei miei corsi di Disegno Brutto).

Quali erano le parti che più ci colpivano, quali i pensieri e le emozioni che scaturivano?
Ci confrontavamo in modo diverso con un’opera e la capivamo con altri piani, che esulavano dal mero binomio osservazione-comprensione.Una volta che il gigante scuro è nato su ognuno dei nostri fogli ci siamo incamminati nelle tre sale che avevo scelto.Ormai eravamo artisti e creatori, quindi esploratori. Potevamo sperimentare il processo variabile, indecifrabile, della creazione artistica e di come generi creature e forme sempre diverse.
A parziale documentazione del percorso, a seguire ho inserito delle gallerie di foto e le mie impressioni grafiche: le prime raccolte velocemente durante il sopralluogo di un’ora fatto nel giorno precedente al laboratorio e le altre annotate, direttamente sull’opuscolo guida dell’esposizione, qualche giorno fa, misurandomi con i resti di ciò che effettivamente mi era rimasto “impresso”


La prima esperienza di questo tipo, ovvero di Disegno Brutto va al Museo, l’avevo sperimentata lo scorso autunno durante il Book City al Museo del 900 di Milano; settimane dopo avevo provato un dialogo tra poesia e pensiero visivo per il progetto Ekphrasis tenutosi al Teatrino di Palazzo Grassi, quest’estate, pur con qualche differenza, avevo sperimentato l’approccio con il museo a cielo aperto delle Incisioni Rupestri della Val Camonica (di cui esiste un altro resoconto). Se non fosse sopraggiunto il Covid, probabilmente avrei portato l’esperienza in altre città, grazie ai tanti contatti e alle proposte arrivatomi, da Roma alla Lunigiana. Aspettando tempi migliori, continuerò a documentare questo percorso sperimentale di visita al museo, così come l’ho provato su me stesso in altre occasioni durante questi ultimi anni di Disegno Brutto.
Spero che il resoconto stimoli discussioni e idee, che sono sempre pronto e contento di ascoltare. Basta scrivermi: disegnobrutto@gmail.com.

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